Familie Flöz, tra incanto e poesia al Teatro Bellini di Napoli con “Feste”

Cosa c’è di autentico in uno spettacolo teatrale? Quanto in qualche modo la forma comunicativa è estremamente necessaria per consentire allo stesso messaggio  di veicolare, qualunque esso sia.

Feste Familie Flöz

Non sempre raccontare cosa uno spettacolo teatrale in qualche volta riesce a trasmettere è facile come si potrebbe immaginare. In alcuni casi, tutto appare in qualche modo stravolto, tutto, ogni cosa si manifesta in un modo inaspettato. Coscienti di una forma comunicativa alla quale probabilmente non si è affatto abituati si accetta di provare una esperienza che di certo si può considerare diversa da tutte le altre.

Familie Flöz, sbarca al Teatro Bellini di Napoli con “Feste”. In linea, con una sorta di politica artistica, cosi si potrebbe definire, questo specifico contesto, questo progetto, idea, o come dir si voglia, salta agli occhi dello spettatore sin dalla prima scena, lì dove tutto, ancora, appare del tutto indefinito.

“In una maestosa villa sul mare, tutto è pronto per la celebrazione di un matrimonio e della conseguente festa. Dietro la villa, si nasconde un cortile, sporco e caotico, dove il personale lavora senza sosta per cucinare, preparare, sorvegliare, pulire, ordinare”. La presentazione, o meglio, parte di essa, nella sua versione ufficiale da l’idea di qualcosa di profondamente usuale, almeno per quel che riguarda una sorta di impostazione artistica.

La realtà è tutt’altra. La verità, scandita da un silenzio assordante e poco comune, in uno spettacolo teatrale, da un accompagnamento musicale vivo e assolutamente complice della bellezza in immagini rappresentata sul palco appare come via via più riconoscibile.

Un’opera di Andres Angulo, Björn Leese, Hajo Schüler, Johannes Stubenvoll, Thomas van Ouwerkerk, Michael Vogel, con gli stessi  Andres Angulo, Johannes Stubenvoll e Thomas van Ouwerkerk con la regia Michael Vogel, ci mostra una dimensione, una immagine certo, assolutamente fuori da ogni concezione.

Il tutto si muove seguendo i ritmi, i volti, le espressioni delle maschere indossate dagli attori. Tutto segue un ritmo, per l’appunto, difficile da cogliere inizialmente che alla fine, entrando dritti in quella travolgente libertà espressiva, si palesa in tutta la sua bellezza e maestosità. Una storia, una trama, quasi comune, quasi ipotizzabile, descritta, raccontata, attraverso le immagini, i gesti, l’anima dei protagonisti in scena.

Niente è lasciato al caso, tutto fa parte di un percorso, di un processo che punta il fine, che spavaldo prova ad arrivare intatto alla conclusione. La felicità e le sue molteplici sfaccettature, la ricerca di essa, la conservazione, la gestione, forse. Il punto di vista attraverso le immagini che varia. I volti dei protagonisti e le storie che attraverso di essi si rincorrono. Il valore effimero forse di un concetto che è ben più vaso della semplice concezione di felicità.

Quanto dura quest’attimo? Quanto l’esser felici? In che modo ciò che ci lusinghiamo di sapere, di voler tramandare, raccontare, è realmente vivo dentro di noi. Uno spettacolo unico nel suo genere, in cui ad esser vivo nella mente dei chi osserva è il silenzio che lascia ancora più campo all’interpretazione a quel messaggio che ci affanniamo a cogliere.

Qual è? Forse non c’è, non esiste, almeno cosi come la nostra immaginazione ci porta a considerare. Forse è solo un gioco, di suoni e volti, di corpi che cantano, ballano e raccontano di una vita che non è sempre ciò che vorremmo. Forse, ancora, tutto è magico, e la poesia prende il sopravvento, in un racconto quasi onirico che è reale e farsa, giusto e ingiusto, buono e cattivo. Il pubblico, alla fine applaude, sognante, quasi imbambolato di fronte alla saggezza di un volto, di un corpo e della forma d’arte capace di venir fuori.