“Luce d’Oriente la Divina Veggente” di Antonio Magliulo, in scena allo ZTN di Napoli

 

 

Schegge impazzite di teatro, allo “ZTN” di Napoli. In scena, fino alla scorsa domenica, “Luce d’Oriente, la Divina Veggente”, di Antonio Magliulo, testo del genere “post scarpettiano”, di cui l’autore è probabilmente il pioniere, in cui le maschere, abbracciano la moderna comicità, per raccontare ciò che in parte circonda e affolla i nostri giorni. Lo spettacolo, diretto da Maurizio Capuano, ha come protagonista il mondo della magia, e più nel dettaglio, di quella che si vorrebbe far passare come tale. Un insano commercio di speranze, dedicato ai più deboli, ai più insicuri, a quelli che, attendono d’esser felici. Luce d’Oriente, è una delle più “magiche” truffatrici della zona, sempre alla ricerca del pollo da spennare, ed in eterna competizione con la seconda “maga” del suo palazzo. Cosa renderà epico, e probabilmente produttivo il loro scontro? La più spettacolarizzatrice delle invenzioni dell’uomo, la televisione. Ingannevole lente d’ingrandimento, delle pene e della pena, dell’animo umano. In scena, Rosa Andreone, Fabrizio Botta, Antonio Cilvelli, Antonio D’Alessandro, Gianni Galepro, Patrizia Ghiggi, Emanuele Iovino, Marilia Marciello,

Gennaro Monforte, Ursula Muscetta, Giada Pignata e Romina Strazzullo, danno vita alla surreale e sincera magia del teatro. Schegge, si diceva, perchè appunto sono gli attimi, che rendono assolutamente unica la rappresentazione. Attimi d’arte e colore, in cui una maschera si fa uomo e chiede d’esser preso in considerazione. Attimi in cui il grido di chi è ultimo, si mescola all’arroganza di chi si fa lupo, pronto a sbranare ogni cosa, per la propria gloria. Attimi di appassionante e folle sperimentazione, attraverso l’imprevedibile regia di Maurizio Capuano, che si impone d’essere puparo, muovendo al ritmo a lui più congeniale, i fili di una trama, di una messa in scena, dinamica e viva, tra sfumature di commedia dell’arte e rievocazioni pasoliniane. Il risultato è un’impeccabile metafora di ciò che siamo, che è ciò che condanniamo, ma che forse è ciò che morbosamente, velatamente chiediamo d’essere.