“La Tragedia è finita, Platonov”: tra Ferracchiati e Cechov, lo sguardo di Alessio Avellino

Al Piccolo Bellini è di scena il teatro. Cechov detta, Ferracchiati interroga mentre in platea uno sguardo fine ne coglie ogni dettaglio.

Platonov

Platonov è un testo incompiuto di Anton Čechov che venne ritrovato tra le carte dell’autore nel 1920 senza titolo e frontespizio, pubblicato qualche anno dopo con il nome del protagonista. Per la prima volta portato in scena dal regista umbro Liv Ferracchiati come “La tragedia è finita, Platonov” poco dopo la rappresentazione e la premiazione in importanti festival della sua “Trilogia dell’identità”.

La platea de Il Piccolo Bellini è ancora a luci accese quando tra le poltroncine chi scrive nota una persona vestita in modo elegante che prende posto con lo sguardo diretto verso il palco: è uno spettatore? Fa parte della rappresentazione?
Le luci calano e nella penombra, a bordo scena, a un vogatore di legno siede – arrivando dal pubblico – la figura vista poc’anzi: “ho già trent’anni e non prevedo più cambiamenti”.

Liv Ferracchiati, autore della rappresentazione, ne è anche un personaggio, Il Lettore, non presente nell’opera originale. Il lettore nasce dal confronto dell’opera con la società attuale, è il canale attraverso il quale il messaggio del Platonov si svecchia e arriva fino a noi, forse ventisettenni che non prevedono che la loro vita cambi per i 30. Al centro della scena ci sono solo cinque dei personaggi originali: Michael Platonov (Riccardo Goretti), la moglie Saša, Anna Petrovna, la giovane vedova del generale Vojnicev e perciò “generalessa”, Marja Grekova, la ventenne proprietaria terriera vicina dei Vojnicev, e Sof’ja, moglie del figlio di primo letto del generale Vojnicev. (Francesca Fatichenti, Alice Spisa, Petra Valentini, Matilde Vigna)

Un testo scrosciante, poco adatto alla rappresentazione, lungo e con troppi personaggi che con Ferracchiati diventa una “sinossi” fluida e ben coordinata. Il regista si avvale di una dialettica vivace e ironica che cinge l’irresolutezza di Michael Platonov – un maestro elementare di ventisette anni, in tumulto come Amleto e impenitente come Dongiovanni – per costruire lo specchio tangibile di una fase di evoluzione della vita e di quel sentimento di smarrimento e caos che la accompagna, oggi, più che mai. Fase che, in molti, non cessa d’esistere e accompagna lo spirito tormentato di chi desidera troppo o si convince di farlo, relegando al desiderio il significato simbolico del dionisiaco, della proibizione contrapposta alla rassegnazione dell’incessante scorrere del quotidiano ostile rappresentato dalla moglie di Michael, alla quale egli stesso chiede di restare perché è grazie a lei se ha una famiglia, è grazie a lei se è un marito: “se non come moglie, resta almeno come infermiera”.

E’ in questo panorama che Ferracchiati mette in scena non solo “la non scelta” – intesa come prospettiva di infinite possibilità che altrimenti sarebbero vane nell’intento – ma anche la contemporaneità di un uomo incapace di compiere un qualsiasi gesto decisivo, un passo, che lo avvicini all’evento, ovvero alla “stagione dell’amore” che potrebbe renderlo un uomo meno debole e meno insofferente per la propria sorte: la contraddizione come patologia incurabile.

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Il regista non si allontana mai troppo dalle caratteristiche del testo di Čechov che plasma periodo dopo periodo con inventiva culturale, in un gioco teatrale tra il raccontato e l’esperito, mescolando i confini tra realtà e immaginazione, propri e dello spettatore. Il lettore è capace di immergersi così profondamente nel testo da destituire con la propria immaginazione l’autore stesso, e perché si tocca con mano, fin dall’inizio dello spettacolo, la passione del legame che il lettore ha costruito fra sé, l’autore russo e i personaggi dell’opera, come se la sua vita personale si fosse “incastrata” nella trama e nella vita dei personaggi che la animano, e viceversa.

Legame che diventa vivido ed evidente con l’incalzare delle vicende: quanto più il lettore si impregna gli occhi con le parole del racconto, immergendosi nella sua intensità, più il suo corpo si accomoda all’interno dello spazio di scena, liberandosi degli abiti eleganti iniziali fino a restare in t-shirt e camicia sbottonata con le maniche arrotolate. E’ così che il lettore prende spazio all’interno della narrazione, stravolgendo l’opera e travolgendo il pubblico con l’ironia contemporanea di chi il Platonov l’ha compreso, interiorizzato e desidera ucciderlo per potersi liberare dai limiti culturali e sociali dei suoi modelli vetusti.

Perché non viviamo come avremmo potuto? Esisto o sono io stesso una proiezione della mia fantasia? Siete mai stati sull’orlo della vostra esistenza? Avete mai perso l’orientamento esistenziale?”

Sono gli interrogativi che il lettore propone. Non riuscendo egli ad ottenere per sé la “forma” agognata  (giustificata così la presenza del vogatore), tenta di ottenerla sui personaggi di Čechov. Prima parlando a e poi con loro: dubbi e domande esistenziali che varcano il confine del dramma originale. Quanto ci sia di Checov in Ferracchiati e quanto di Ferracchiati in Checov è difficile da quantificare, soprattutto mentre egli stesso domanda alle donne se non fossero abituate ad uomini “come lui”. Probabilmente, come quelli che ricercano costantemente di darsi una forma attraverso le parole, i pronomi e i vogatori che non sanno restituire dignità alle intenzioni.

Senza dubbio, Liv Ferracchiati riesce con la disinvoltura della sua teatralità a smussare quella melodrammatica del testo, ridimensionando le vicende alla dimensione “comune” dell’uomo contemporaneo.

Alessio Avellino